Crisi, leadership e possibilità nell’Università che cambia

L’intervista al Prof. Gaeta Responsabile Scientifico del Laboratorio Know-MIS, Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, Elettrica e Matematica Applicata (DIEM) – Università degli Studi di Salerno. unisalerno_cover

Alle spalle una lunga esperienza nella vita accademica dell’Ateneo salernitano, oltre ad incarichi ministeriali e un passato di impegno anche in ambito tecnico-politico nazionale, in questa intervista il Prof. Matteo Gaeta offre una lettura alternativa — insieme lucida, critica e costruttiva — degli avvenimenti che hanno segnato le recenti elezioni per il nuovo Rettore dell’Università di Salerno. Un dialogo aperto, denso di riferimenti e di visione, in cui la complessità dei fatti si intreccia alla responsabilità intellettuale di chi crede profondamente, nella funzione pubblica dell’Università e nel valore del proprio lavoro.

Professore, da osservatore esperto e da figura che ha spesso avuto un ruolo decisivo nelle elezioni rettorali all’Università di Salerno, come legge l’esito di questa recente, articolata competizione?

«Questa tornata elettorale, a mio giudizio, è stata tra le più complesse e dense di implicazioni politiche degli ultimi anni. Non solo per l’esito, ma per il modo in cui si è progressivamente modificata la grammatica del confronto accademico: alle consuete logiche di equilibrio e mediazione si sono sovrapposte nuove dinamiche, più visibili, talvolta più instabili. Il successo del prof. D’Antonio non è stato solo un’affermazione personale, ma la manifestazione di un bisogno diffuso di cambiamento. Una parte ampia della comunità ha scelto la discontinuità, ma lo ha fatto riconoscendosi in una figura che ha saputo tenere insieme — con misura e intelligenza — esperienze diverse, visioni talvolta distanti. E questo, soprattutto in una Università, è un segnale che merita attenzione. »

Inizialmente il fronte alternativo alla candidata Petrone appariva compatto. Come si è incrinato quel progetto unitario? E che ruolo hanno avuto, secondo lei, alcuni docenti anziani che hanno partecipato con una forma di coordinamento?

«All’inizio il quadro era sorprendentemente semplice: da un lato una candidatura sostenuta con forza dal Rettore uscente, dall’altro tre colleghi autorevoli, ciascuno con una visione distinta ma accomunati dal desiderio di cambiamento. Una dialettica classica, direi, ma composta. Il coinvolgimento di docenti anziani in una funzione di coordinamento appariva inizialmente sensato. Tuttavia, con il tempo, si è prodotta una torsione: il baricentro del confronto si è spostato, in modo silenzioso ma tangibile, verso un allargamento che ha reso più fragile la struttura originaria. La dispersione che ne è derivata ha complicato la costruzione di un’alternativa coesa. Fortunatamente, la maturità dei candidati ha contenuto gli effetti di quella fase, consentendo — nonostante tutto — una convergenza sostanziale. »

La candidatura della prof.ssa Adinolfi ha inciso sugli equilibri della competizione. Come valuta oggi quel passaggio e il suo impatto sul fronte alternativo alla continuità?

«La prof.ssa Adinolfi è una figura di prestigio, con riconosciuti meriti accademici e istituzionali, e una raffinata sensibilità per le dinamiche dell’università. La sua candidatura era legittima. Ma proprio per la sua statura, sarebbe stato auspicabile un posizionamento più coordinato rispetto a un quadro in via di definizione. Non credo si sia trattato di ambizione mal calibrata. Piuttosto, chi suggeriva avrebbe dovuto guidare con maggiore lucidità una scelta così delicata. L’effetto politico è stato oggettivo: si è generato un attrito delicato ma percettibile, che ha reso più complesso il cammino verso una sintesi condivisa. Detto ciò, grazie alla sua indubbia intelligenza e al profondo senso delle istituzioni, è stata proprio la collega a compiere, nel momento opportuno, una scelta capace di favorire la convergenza finale. Un gesto di equilibrio e maturità, che merita rispetto e gratitudine.»

Il rettore uscente Loia ha inciso, seppur indirettamente, sulla campagna elettorale. Qual è il suo bilancio, tra fine mandato e scelta del successore? E come valuta il ruolo del prof. Vecchione, prima vicino a quell’area e poi rientrato nel fronte alternativo?

«Non so cosa sia accaduto al Rettore uscente nella fase conclusiva del suo mandato. So però che avrebbe potuto essere ricordato come colui che ha guidato l’Ateneo, con fermezza e dignità, durante la crisi pandemica: una prova drammatica, affrontata con equilibrio. Poteva lasciare un segno alto, definitivo.La scelta di indicare un successore in modo così esplicito resta per me difficile da comprendere. Non era nel suo stile, almeno per come l’ho conosciuto nei momenti più alti della sua governance. E sia chiaro: non è una questione personale, né un giudizio sulla collega indicata. È una valutazione oggettiva sul risultato: quella candidatura non ha generato né coesione né consenso largo. Il vero nodo, forse, è il clima che si è instaurato dopo il Covid: un’Università più chiusa, più opaca, attraversata da una politica partitica monocorde e da una sensazione diffusa di solitudine e sospensione. In quel contesto, un passo indietro sobrio e silenzioso sarebbe stato un gesto alto, capace di restituire centralità alla comunità accademica. E poi, mi permetta di dirlo con rispetto: sono certo che anche lui, come me, sa bene che la vita è fatta soprattutto d’altro. Di ciò che resta quando il potere si ritira. Di ciò che davvero conta. E questo — nel silenzio assordante che conosciamo entrambi — ci unisce più di quanto le divergenze possano dividere. Quanto al prof. Vecchione, nutro per lui stima e rispetto. È un docente di qualità, serio, generoso. È facile, oggi, giudicare la sua scelta di avvicinarsi all’area di governo uscente come un errore. Ma chi, trovandosi in una posizione simile, non sarebbe stato lusingato da una proposta così forte? È una reazione umana, comprensibile. Diversa è la visione accademica. Ma ciò che conta è il suo rientro sobrio, senza rivendicazioni, in un progetto collettivo. Chi ha intelligenza istituzionale ha compreso e mantiene intatta la stima verso di lui. E sono certo che continuerà a offrire un contributo importante, al servizio dell’Università e delle nuove generazioni.»

Qual è, secondo lei, la lezione più importante che questa tornata elettorale lascia alla nostra comunità? E che visione dovrebbe ispirare oggi chi guida l’Ateneo?

«Ci sono momenti in cui chi ha attraversato stagioni importanti della vita accademica, raccolto successi nazionali e internazionali, e svolto il mestiere più bello del mondo — la ricerca e la didattica — deve percepire la necessità di un cambiamento generazionale. Deve evitare fratture, creare continuità, e — in sintesi — comprendere che è giunto il tempo di fare un passo indietro. Non per disinteresse, ma per responsabilità. È quello che ho avvertito: la necessità di lasciare spazio a una nuova generazione, e accompagnarla, senza sovrapporsi. Troppo spesso, anche nella mia area — l’ingegneria — ho visto rafforzarsi logiche stanche: baronie residue, certezze granitiche, divisioni per una delega, leadership non generative. Il nostro ruolo, oggi, non è trattenere: è orientare, consigliare, creare condizioni per far emergere i giovani. L’Università deve tornare a premiare la progettualità, la didattica viva, la ricerca che libera energie e offre opportunità. E sa cosa noto, talvolta? Che riteniamo, anche dopo i sessant’anni, di essere i migliori e dimentichiamo che tra noi ci sono giovani colleghi di valore mondiale – fellow IEEE-, ricercatori silenziosi, rigorosi, straordinari. Sono loro il nostro capitale più prezioso. A loro, e agli studenti, dobbiamo restituire un clima all’altezza: serio, aperto, fiducioso. In questo senso, credo che il prof. D’Antonio non sia solo una speranza: è la sintesi possibile di una fase nuova. Una fase fatta di coraggio, ascolto, e visione verso un tempo che non si teme, ma si costruisce. Insieme.»